venerdì, agosto 22, 2014
Rapite in Nigeria, ombre sull’esercito
#bringbackourgirls. Un hashtag di moda tre settimane fa e ora quasi scomparso. Scomparse da più di cinquanta giorni sono Blessing, Patiant, Kauna, Rhoda, Saratu, Kwadugu, Hanatu, Mwa e altre 260 ragazze nigeriane, rapite perché andavano a scuola. I loro aguzzini sono gli uomini di Boko Haram, integralisti islamici che, nell’Anno del Signore (di qualunque fede esso sia) 2014 le vorrebbero recluse in casa a far figli, possibilmente maschi.Più passano le settimane più c’è qualcosa che non torna nell’attacco alla scuola cattolica di Chibok, nel nord della Nigeria. Le responsabilità dell’esercito nigeriano rasentano la complicità. “Il gruppo di Boko Haram ha osato ancora una volta molto, è andato a colpo sicuro e tutto induce a pensare a qualche forma di complicità. - spiega a Tgcom24 Virginia Comolli, ricercatrice nel settore Sicurezza e Sviluppo all’International Institute for Strategic Studies di Londra - Alcuni report provano che l’allarme arrivò circa quattro ore e mezzo prima e che in servizio in quella zona c’erano solo 14 o 16 militari contro un commando di almeno 200 miliziani”.
Non è la prima volta che gli integralisti nigeriani umiliano le truppe regolari: ai primi di dicembre 2013, Boko Haram mise a ferro e fuoco l’aeroporto di Maiduguri, il principale scalo militare. E ancora per due volte attaccarono la stessa capitale. Ieri come oggi la sfrontatezza del commando lascia più di un dubbio. “Non voglio dire che dietro il rapimento c’è l’esercito ma il servizio di intelligence nigeriano non è dei migliori. Va incentivato il coordinamento tra polizia, esercito e le altre forze”
Comolli parla dal suo ufficio di Londra ma dimostra di conoscere la Nigeria come le sue tasche. “In questo rapimento i soldi non c’entrano. E’ un’azione per uno scambio di
martedì, maggio 06, 2014
A quando un'altra Napoli-Fiorentina?
Se questo è calcio preferiamo starcene a casa o spegnere tv e/o Internet. Meglio un libro o la playstation che vergognarsi per l’ennesima pagina nera del pallone italiano. Gli aggettivi sono fondamentali: “ennesima” e non “ultima” perché alzi la mano chi crede che non ci sarà un’altra Napoli-Fiorentina prima o poi. E pensare che solo un paio d'anni fa qualcuno la buttò lì, all'indomani del calcioscommesse: "Se questo è il calcio meglio fermarlo un anno" azzardò Mario Monti. Apriti cielo: guai a toccare il giocattolo nazionale, la macchina da soldi e consenso.
mercoledì, aprile 30, 2014
Seb, baby modello Down, commuove l'Inghilterra... e la Rete
Tutti i baby modelli sono uguali. Ma Seb è più uguale degli altri. Perché i suoi cromosomi non sono identici a quelli di un qualsiasi altro bambino poiché ha un coppia in eccesso del cromosoma 21: Seb ha la sindrome di Down. Ma questo bimbo di 5 anni non è diventato famoso in Inghilterra per questo: Seb White è il primo modello inglese down. Il suo viso allegro e la sua voglia di vivere un’esistenza normale campeggiano nella reclame della catena di Marks & Spencer al fianco di ragazzini nati con un regolare numero di cromosomi.
Dietro al piccolo inglese di Bath, nel Somerset, c’è una madre che ormai non si ferma più.
Lei si chiama Caroline Playle ma tutta la Rete la conosce come Seb’s Mum. Caroline lavora in un’agenzia, ha tre figli e un marito, Simon. Tra lavoro e famiglia, le briciole del tempo libero finiscono a scrittura e solidarietà. “Seb è il più grande dei nostri figli - racconta - e quando ci dissero della sindrome di Down siamo rimasti scioccati. Non eravamo preparati a una vita di incertezze e dubbi e quello che avrebbe dovuto essere il più bel giorno della mia vita è diventato il peggiore. Immaginavo una vita tra differenze ed esclusioni”. Paure comprensibili, insicurezze superabili magari “conoscendo il nemico”. Simon e Caroline così cercano e divorano libri e siti sul tema.
Dietro al piccolo inglese di Bath, nel Somerset, c’è una madre che ormai non si ferma più.
Lei si chiama Caroline Playle ma tutta la Rete la conosce come Seb’s Mum. Caroline lavora in un’agenzia, ha tre figli e un marito, Simon. Tra lavoro e famiglia, le briciole del tempo libero finiscono a scrittura e solidarietà. “Seb è il più grande dei nostri figli - racconta - e quando ci dissero della sindrome di Down siamo rimasti scioccati. Non eravamo preparati a una vita di incertezze e dubbi e quello che avrebbe dovuto essere il più bel giorno della mia vita è diventato il peggiore. Immaginavo una vita tra differenze ed esclusioni”. Paure comprensibili, insicurezze superabili magari “conoscendo il nemico”. Simon e Caroline così cercano e divorano libri e siti sul tema.
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