martedì, luglio 12, 2005

ATTACCO A LONDRA: SE A MILANO ANDASSE COSI'?

Su la sbarra. Passo. Ritiro il badge d’ingresso. Giù la sbarra. Entro, spengo l’autoradio. Ripeto ogni giorno questo rito alle 7 del mattino quando il parcheggio di Cascina Gobba è un formicaio. Niente free press, un caffè di corsa e un libro sottobraccio. Sulla banchina inizia la mia attività di ficcanaso. Sono curioso, lo ammetto: guardo le facce della gente, spio quale pagina di City legge il vicino o per cosa si sprecano migliaia di frasi già a quest’ora, in una variopinta carrozza della MM, la verde per Famagosta (piazzale Abbiategrasso è ancora troppo ermetico).

Arriva il metrò. Salgo, mi siedo e quando il treno lascia Gobba mi guardo attorno. Sono vicino all’uscita: davanti a me tre ragazzine scherzano con i cellulari di terza, quarta o quinta generazione. Due impiegate socchiudono gli occhi già a Crescenzago. Sale altra gente: tanta da passare al mio setaccio. In parallelo c’è viale Palmanova ma noi superiamo qualsiasi auto. Davanti a me un paio di filippini, alti quanto basta per non farmi ammirare appieno una donna. I miei colleghi (maschi) la scrutano e mi accodo. Cimiano: poche novità. Studenti, uno straniero e una zingara. “Signore e signori, scusate a me disturbo, sono mamma di Bosnia con 5 figli…” L’immancabile litania oggi nella versione senza bimbo da esporre. Intanto la donna nota di aver gli occhi addosso e n'approfitta. Più a destra si siede lo straniero.

Udine: il metrò diventa un budello nel ventre buio della città. Alla fermata una dozzina di passeggeri per carrozza. La sconosciuta si guarda attorno. Lo straniero pure. Lambrate, terra di pendolari . Si aprono le porte e sale la massa indistinta e multietnica. Nella ressa perdo la donna ma vedo meglio lo straniero. Piola, la fermata degli studenti. Tantissimi scendono, tanti salgono. Fisso quel maghrebino: pelle olivastra, occhi neri, barba incolta, kefiah, un fagotto in vita. Loreto: la prima trasfusione di passeggeri. La donna si alza (saluta?) e se ne va. Lo straniero no. Resta lì a guardarsi in giro. Chissà chi aspetta. Caiazzo.

Lo straniero fa posto ad un’anziana. Mentre si alza, dal giubbetto spunta una fascia con una luce rossa. Una spia ad intermittenza. Solo ora vedo la sua fronte madida di sudore. Eppure settimana scorsa ha nevicato a Milano, non fa certo caldo nemmeno sottoterra. Cosa porta con sé? Un led addosso ma lui non ha auricolare. Un telefonino non ha spie così grosse e quello non è di certo un cercapersone. Un maghrebino, una luce e due occhi intermittenti, un bagno di sudore. E se fosse? Non ci voglio credere. Troppa tv, troppe suggestioni. Eppure tutto fila: quello è un kamikaze. Quel fagotto è la cintura esplosiva, la spia ne prova l’attivazione. E’ guardingo solo per controllare che nessuno lo noti. Io ho visto, io so tutto. La tratta Caiazzo-Centrale diventa eterna.

Che faccio? Divise amiche zero. Gridando anticiperei la condanna a morte. Nei budelli di Milano i telefonini vanno in letargo. Siamo quasi in Centrale, la mia fermata perché poi m’infilo in via Turati. Forse è anche la sua meta. Io ce la faccio ma gli altri? “Hai visto troppi 11/9” penso. Possibile che sia il solo a notare lo straniero? Ma sì, ho metabolizzato troppi falsi allarmi. Il metrò rallenta. Siamo arrivati. La banchina è piena. Il ricambio è pronto. Scendo. Mi giro e fisso lo straniero. Lo sguardo s’incrocia. Suda. Non si muove: non è un kamikaze. Una manciata di gradini e sono salvo. Respiro. In ufficio un tarlo mi rode. Accendo la tv. “Edizione straordinaria”. Oddio. “Poco fa un’esplosione nella stazione Gioia della metropolitana milanese…”. Ora tocca a me sudare.

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